Quattro giorni e quasi nessuna foto scattata. Mi sono dimenticata. O forse mi sembrava un atto un po’ sacrilego, un gesto da turisti e non da protagonisti. Ci si sentiva così, al RomHack Camp: non c’era tempo per nulla che non fosse radicalmente esserci, presenti. Così alla fine sono dovuta andare a elemosinare immagini scattate da altri, perché il desiderio di avere un interruttore di ricordi era troppo intenso, dopo, quando tutto era finito.
Giovedì al camp c’erano solo gli organizzatori e i volontari che davano una mano. Radunati perlopiù nei bungalow, sobri e ordinati, nel verde soleggiato della mattina, le facce note che entravano e uscivano dalle casupole vicine le une alle altre, sembravano un villaggio di esuli politici, la stessa spensieratezza di chi l’ha scampata e attende con fiducia il futuro.
I tendoni e i tavoli erano ancora vuoti. La partecipazione di centinaia di persone all’evento sembrava una promessa improbabile, un miraggio lontano. Nel nostro bungalow con V. abbiamo fatto incetta di phon. A breve ci sarà un workshop sul lockpicking ma noi potremmo farne uno su come partire per un campeggio coi ricci lunghi e senza uno straccio di asciugacapelli per poi trasformare il bungalow in un salone da parrucchiere. Giusto per giocare un po’ con gli stereotipi, visto che siamo tra le poche donne. Lei però è anche una trentenne che fa l’analista in un SOC svizzero e ne dimostra dieci di meno. Siamo bravissime a entrare e uscire al mattino o alla sera tardi mentre l’altra è collassata con passo felpato e senza accendere una luce.
Giovedì sera la situazione comincia a scaldarsi, sbucano le prime tende. Venerdì si sarebbero moltiplicate attorno ai bungalow come una tribù di pacifici invasori. L’unico pericolo era passarci in mezzo di notte, dopo molte birre, senza inciampare in uno dei picchetti.
Merlos, in quella che sarebbe stata la sua immagine principale da giovedì a domenica, è perennemente in piedi. Non credo di averlo mai visto seduto, se non per venti minuti a un computer. Si sposta in continuazione. Dà indicazioni in continuazione. È al telefono in continuazione. Impreca. Gestisce emergenze. Abbraccia qualcuno passato a salutarlo, poi riparte. Si sposta di nuovo. Chiama qualcuno. Verrebbe da chiedergli chi te l’ha fatto fare. Ma nessuno osa fargli perdere tempo con domande idiote.
Arrivano i primi partecipanti al tavolo di check-in, presidiato da M., con l’aria pacata e saggia di chi ha visto molte conferenze e ora si gode il dietro le quinte di quelle organizzate da altri. Ha l’aria dello zio che ti dice di metterti la felpa per non prendere freddo. Di quello a cui andresti a confidare disperazioni amorose. Soprattutto dà il tempo per pranzo e cene, sfoderando un appetito teutonico. Stiamo lì per un po’ a impacchettare badge elettronici mentre si avvicinano a registrarsi anche degli stranieri. A ogni parola foresta scatta l’eccitata solidarietà italica. Il benvenuto è caloroso e poliglotta. Sullo sfondo gli organizzatori, quelli che lavorano sul serio, caricano e scaricano panche, cavi, barili di birra. Si fa la spola col bar e il tendone della conferenza, che stanno in cima al campo, dopo una graziosa fila di camper, igloo e casette vip, con dei monopattini. Sono la nostra metro, li prendiamo anche in due. Ormai è chiaro che questo non è più un camp ma una cittadella indipendente, la repubblica autonoma di RomHack, stiamo facendo scorte per resistere all’inverno, ai fasci, agli hacker russi, alla guerra, alla pandemia, al freddo e all’ACN.
Venerdì inizia a riempirsi. Da subito si capisce che la libera repubblica di RomHack è fatta di tribù che si mescolano anche, ma senza concentrarsi in un unico punto di aggregazione. Siamo decentralizzati come una blockchain. Ci sono però dei nodi principali. Neuro è uno di questi. Lui è presente dalla prima ora del camp, e il suo compito organizzativo è essere Neuro, come John Malkovich. Neuro è il raccordo tra la storia dell’hacking italiano e il suo futuro. È l’altro zio del camp, quello da cui ti fai raccontare il passato della resistenza hacker ma sai pure che tiene ancora i fucili nascosti da qualche parte, non si sa mai. La sera si siede e come una calamita si radunano attorno gli altri, e la conversazione scorre come una lager.
I bergamaschi – che si portano dietro un’aria di montagna, camminate, cordate e vin brûlé anche se li piazzi alle Maldive – allestiscono sound system e un pentolone gigantesco dove gireranno una formidabile polenta taragna. Questa verrà favoleggiata per decenni, e dopo quella sera il mondo si dividerà fra chi ha assaggiato la polenta taragna e chi no.
Venerdì si sta sulla panche fino a tardi, fingendo di non sentire il freddo umido nelle ossa. Il sabato mattina arriva in un soffio e con un altro pentolone, quello organizzato dal banchetto di ESC, pieno di caffè caldo. Lo si prende a mestolate, insieme alle fette biscottate e alla Nutella. Se c’è un’immagine della felicità e di un futuro gravido di attesa per me è uscire dal bungalow la mattina, con una promessa di sole dietro alle nuvole, e trovare quel banchetto con le moke giganti, pantagrueliche, e l’aria tetragona e sorniona di Seba che sembra uscito dalle stanze dell’Oracolo di Matrix: mancano solo i biscotti e le profezie.
Parte la conferenza, all’altro capo del camp, e il tutto assume un’aria più efficiente, più pro. Il tendone è pieno, il bar è pieno, le magliette sui tavolini vanno a ruba, e in giro per il camp si fanno e disfano capannelli di gente. Arriva I. con il bulldog che rincorre pietre ed è subito raduno di famiglia. I giovani ci sono ma sembrano invisibili, poi finalmente si capisce perché. Stanno incollati sotto un tendone a fare la CTF. Quasi ci dimentichiamo di loro mentre stiamo tutti a cazzeggiare fra caffè e birre. Poi però sbucano di sera. Li troviamo all’incontro serale sul lavoro dove F. si presenta ubriaco e parte con un rant su professione e passione. Filosoficamente sarebbe da approfondire ma al momento preferiamo togliergli il microfono. Farà incazzare un po’ tutti, ma c’è qualcosa di tenero e buffo in questo exploit. I ragazzi, a loro modo, hanno capito. Comprendono molto di più di quello che pensiamo noi, irrigiditi dal tempo, il dovere e le responsabilità.
Ad ogni modo, dopo che i vecchi si sono lamentati di quanto fossero seri questi giovani (signora mia, ai nostri tempi ci sversavamo) arriva infine un gruppetto agguerrito, determinato a cancellare questo pregiudizio con zaffate di grappa (courtesy of Italian Hackers’ Embassy). Si unisce ai veterani che stanno, manco a dirlo, incollati sulla panca attorno a Neuro. A G. che se non proprio lo zio fa quanto meno da fratello maggiore di tutti i più giovani assetati di conoscenza, brillano gli occhi. Parte la conversazione, urlata, confusa, sincera come può essere solo alle tre di notte. Il camp è arrivato al suo coronamento. Il passaggio generazionale è benedetto da una pioggia tardiva e benevola.
Domenica il risveglio ha la malinconia dell’ultimo giorno. La repubblica va smobilitata ma non prima di raccogliersi ancora e contarsi, negli ultimi incontri della mattina. Bisogna partire. Il sogno di mezza, anzi, di fine estate si è concluso. Ma c’è il sole, invece dell’allarme meteo. È un segno inequivocabile. Anche gli informatici in fondo hanno i loro aruspici.
Da qualche parte nella Rete, 30 settembre 2022
Sally
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